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agosto 26, 2009

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La gratitudine in politica non esiste. E’ una regola valida da sempre. Una costante che ha una sua ragione di essere. Il consenso del popolo, infatti, a cui la responsabilità dei partiti dovrebbe richiamarsi,  non può garantire benevolenze private e neanche rendite di posizione. Ma in tutti i rapporti, anche politici, dovrebbero coesistere lealtà e rigore ideale, quali pilastri della correttezza umana, quali capisaldi di un modo corretto di proporsi. E sono proprio questa lealtà e questo rigore ideale che sempre più spesso non si ritrovano nelle strategie politiche delle alleanze e nei comportamenti degli uomini e dei partiti.

Ci sarebbe da chiedersi, a tal proposito, come mai Di Pietro si è alleato con Veltroni, impegnandosi alle ultime elezioni politiche finanche a costituire un gruppo unico in Parlamento, se Di Pietro ora accusa Veltroni di essere responsabile della caduta di Prodi e del ritorno al Governo di Berlusconi?

Se il leader dell’Idv nutriva riserve sul progetto del Partito Democratico e sulle responsabilità dell’ex Sindaco di Roma per la caduta di Prodi, perché si è alleato con Veltroni ed il PD? E, se non credeva in quel progetto, quale valore aveva la sua alleanza, se non quello di una furbesca ed interessata finzione?

Altro che l’Italia dei valori! Più l’Italia dei vagabondi.

Non è un mistero che il salvagente a Di Pietro, alle politiche, l’abbia fornito proprio Veltroni, e che l’ex magistrato abbia barato al gioco, impegnandosi a sostenere un progetto politico che invece ha poi denunciato e fatto fallire. Veltroni ha ingenuamente fornito persino il lubrificante con cui il “feroce” molisano sta ungendo la corda con la quale intende impiccare l’intero PD.

Ma non si tratta solo di mancanza di gratitudine. Si è ripresentata, invece, la bieca attitudine dell’ex PM a tradire chiunque gli abbia allungato una mano. A nulla vale che la mano in questione, trattandosi di quella di Veltroni, prestigiatore a sua volta delle parole e delle immagini, preso dall’illusione di poter vincere le elezioni, non fosse del tutto disinteressata.

Un uomo fortunato Di Pietro. Trova sempre chi lo fa emergere dalle zolle di terra. Ma ci sono anche molti furbastri che sognano di utilizzare il suo trattore per mietere grano elettorale e riempire i silos, all’occasione trasformati in loft, finendo invece con le palle nei cingoli, o basiti dalla sua travolgente inaffidabilità.

Facendo fallire il progetto di un partito nuovo, affrancato dalla sinistra radicale e riferimento, invece, di un’area di sinistra democratica di tipo europeo, aperto al confronto con la parte moderata e propositiva del Paese, Di Pietro ha fatto fallire l’intero progetto politico del PD. E’ venuta meno la stessa ragione di esistere, come emerge dalla miserevole fase precongressuale. Una mera alleanza elettorale tra post democristiani e post comunisti,  vuota di ideali e di prospettive future. Solo un contenitore di uomini lividi, arroccati a difendere spazi di potere, con un comune rancoroso collante antiberlusconiano.

Affossando il proposito veltroniano di collaborare all’avvio delle riforme condivise, per  trasformare anche quello politico italiano in un sistema di democrazia compiuta, Di Pietro ha mortificato ancora una volta il tentativo –  tutto da verificare per la presenza nel PD di incrostazioni massimaliste – di consolidare nel Paese una normale democrazia liberale.

Una preoccupazione quest’ultima che prende corpo col ripresentarsi della protesta intollerante, montata sui pregiudizi e contro un Governo che mostra invece grande impegno e concretezza, nonostante le grandi difficoltà rappresentate da calamità, strutture obsolete e dalla difficile crisi mondiale dei mercati.

Un “cupio dissolvi” sulla pelle degli Italiani. La chiamata alle armi autunnale di Di Pietro è simile alla retorica fascista prima della marcia su Roma, quando il populismo di sinistra e di destra si andavano a congiungere nella follia di ritenere che fuori dalla mediazione della politica, con i modi sbrigativi e con la complicità di pezzi dei poteri dello Stato, si potessero risolvere le difficoltà tipiche delle grandi trasformazioni sociali. E come allora, quando una parte della burocrazia aristocratica – lo stesso potere delle caste di oggi – aveva pensato che si potesse governare la trasformazione della società con  l’instaurazione di uno Stato autoritario, anche oggi c’è chi pensa di poter impedire la trasformazione del Paese, le riforme per la trasparenza e la liberazione dai soprusi e dai privilegi delle caste, fomentando un clima di intolleranza e di delegittimazione politica.

Vito Schepisi      su     Il Legno Storto